monsignoreIl suo percorso ecclesiastico fu particolarmente significativo: sacerdote a Rovigno, dove era anche nato nel 1895 da una umile e numerosa famiglia di pescatori, parroco a Pola, poi nel Duomo della stessa città consacrato Vescovo. In seguito divenne Vescovo di Fiume (1933-1938) ed infine fu Vescovo di Trieste e Capodistria (1938-1975).
Per mons. Santin vi era una doppia fedeltà: a Cristo ed alla Chiesa e a coloro che, come pastore, gli erano affidati; fu di fulgido esempio per i suoi sacerdoti e ad alcuni questa fedeltà costò la vita. Due di questi vanno ricordati, entrambi giovani sacerdoti che hanno onorato il loro ministero fino al martirio: don Francesco Bonifacio (beatificato il 4 ottobre 2008 nella cattedrale di San Giusto a Trieste) e don Miro Bulesich per il quale è in corso la causa di beatificazione. Entrambi operarono nell’allora diocesi di Trieste e Capodistria, che aveva come guida illuminata mons. Antonio Santin.
ll Vescovo Santin assunse un ruolo fondamentale quando le strutture statali del confine orientale svanirono dopo l’8 settembre 1943, diventando il punto di riferimento della comunità religiosa e della società civile.
Per i triestini è stato il difensore della città, una sicurezza di equilibrio e di grande comprensione dell’animo della gente di questa città caratterizzata da tante variegate componenti. Per gli istriani e per i giuliani mons. Santin è stato un costante riferimento, una garanzia di comprensione dei problemi e delle difficoltà, che rendono difficile la ricostruzione di una vita, lui esule tra gli esuli.
Nei territori ove s’era instaurato il potere popolare, ispirato da una disumana ideologia, i sacerdoti e le chiese erano gli unici riferimenti a cui il popolo attingeva la speranza; occorreva dunque eliminare il clero cominciando dal Vescovo.
La persecuzione dei sacerdoti e la campagna denigratoria nei suoi confronti durava da lungo tempo e quando mons. Santin avvisò le autorità comuniste che il 19 giugno 1947 sarebbe andato a Capodistria, di cui era Vescovo, per partecipare alla festa di San Nazario, patrono della città e per amministrare il sacramento della Cresima, i titini ebbero tutto il tempo per organizzare una feroce aggressione nei suoi confronti.
Da testimonianze emerge che mons. Santin andò a Capodistria pronto a subire l’estremo sacrificio, avendo fatto questo ragionamento: se mi tollerano, potrò andare ancora nei paesi della mia diocesi, se mi uccidono, forse l’assassinio di un Vescovo farà decidere gli anglo-americani ad intervenire nella zona B salvando dall’esodo le martoriate popolazioni. Ma gli slavocomunisti, con scaltrezza, non l’uccisero: sarebbe stato molto rischioso per la loro politica di annessione e scelsero così la via di mezzo aggredendolo brutalmente, ma lasciandolo pesto e sanguinante ma non per questo meno combattivo nello svolgere il suo compito pastorale.
Nel dopoguerra, vanno ricordate le sue visite ai campi profughi, alle varie comunità di esuli, la sua presenza costante alle inaugurazioni delle case e degli Istituti e ancora le sue visite ai Collegi ed alle Colonie, il suo sorriso e la sua parola.

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