Genocidio in Rwanda dei tutsi e degli hutu moderati

dal 6 aprile al 16 luglio 1994 si compie in Rwanda, piccolo stato dell’Africa centrale, nella regione dei Grandi Laghi, il genocidio dei tutsi e degli hutu moderati per mano degli ultrà dell’Hutu Power e dei membri dell’Akazu.
La regione Rwanda-Burundi, esplorata a fine ‘800 dai tedeschi, viene affidata con mandato ONU, nel 1924, al Belgio.
I belgi si appoggiano nello sfruttamento coloniale all’etnia tutsi, che si era conquistata la corona intorno al 1500, unificando il paese e instaurando un regime monarchico di tipo feudale, sottomettendo gli hutu e i twa.
Nel 1933 i belgi inseriranno l’etnia di appartenenza (hutu e tutsi) sui documenti di identità ruandesi. L’appoggio belga ai tutsi termina negli anni ’50, a seguito del malcontento provocato dallo sfruttamento coloniale, che porta gli hutu a ribellarsi ai tutsi e i tutsi a progettare l’indipendenza del paese dal Belgio. I colonizzatori sceglieranno allora di appoggiare la rivolta degli hutu.

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Mappa del Rwanda

Su una popolazione di 7.300.000, di cui l’84 % hutu, il 15 % tutsi e l’1 % twa, le cifre ufficiali diffuse dal governo ruandese parlano di 1.174.000 persone uccise in soli 100 giorni (10.000 morti al giorno, 400 ogni ora, 7 al minuto).
Altre fonti parlano di 800.000 vittime. Tra loro il 20% circa è di etnia hutu.
I sopravvissuti tutsi al genocidio sono stimati in 300.000. Migliaia le vedove, molte stuprate e oggi sieropositive. 400.000 i bambini rimasti orfani, 85.000 dei quali sono diventati capifamiglia.
Autore del progetto di genocidio è l’Akazu, la “casetta”, il clan familiare del presidente Habyarimana, che ha mobilitato gli estremisti hutu del nord. Questi hanno affiancato all’esercito regolare dei gruppi d’attacco, gli interahamwe, “quelli che lavorano insieme”, presi dalla popolazione civile, li hanno armati ed incitati al genocidio.
Tutti gli hutu sono stati chiamati al genocidio: chi non partecipava al “lavoro” era considerato un nemico, e quindi andava eliminato. Questa particolarità del genocidio ruandese è visibile anche dalle cifre: 20.000 circa sono considerati i pianificatori (militari, ministri, sindaci, giornalisti, prefetti, ecc, ); 250.000 circa i carnefici, gli autori diretti dei crimini; 250.000 circa le persone implicate negli atti di genocidio.
Nel novembre del ’94 il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha creato il Tpir, il Tribunale penale internazionale per il Rwanda, con sede ad Arusha, in Tanzania. Il Tpir in dieci anni ha giudicato e condannato soltanto una ventina di persone. Per rilanciarne i lavori nel 2003 l’ONU ha designato come procuratore capo, con competenza esclusiva per il Rwanda, Hassan Bubacar Jallow.
Attualmente sono quasi 90.000 i prigionieri detenuti nelle carceri ruandesi.
Di fronte all’impossibilità, per il sistema penale locale, di sottoporre a processo tutti i carcerati, nel 2000 sono state istituite le gacaca, tribunali popolari, che invitano i colpevoli ad ammettere le proprie colpe in cambio di importanti sconti di pena.
La pianificazione del genocidio inizia già negli anni ’80, ma ha le sue radici nella formazione, nel 1957, del Parmehutu, il partito per l’affermazione degli hutu, che pubblica il “ Manifesto degli Bahutu”, in cui viene denunciato il monopolio razzista del potere attuato dai tutsi. Negli anni ’60 l’affermazione del Parmehutu porta all’abolizione della monarchia e alla proclamazione della repubblica con Gregoire Kayibanda, che instaura un regime razzista contro i tutsi. Iniziano le persecuzioni razziste contro i tutsi, costretti a cercare rifugio nei paesi confinanti; e continueranno anche col regime di Juvénal Habyarimana, che sale al potere nel ’73 con un colpo di stato, promettendo progresso e riconciliazione.
Nel 1987 la diaspora tutsi dà vita all’Fpr, il Fronte patriottico ruandese, con a capo Fred Rwigyema e Paul Kagame, con l’obiettivo di favorire il ritorno dei profughi in patria, anche attraverso la conquista militare del potere.
La fine degli anni ’80 vede il Rwanda in piena crisi economica: a fronte di un forte aumento demografico, le risorse agricole del paese restano le uniche e invariate. Le pressioni interne, unite alla richiesta occidentale di democratizzazione, inducono il presidente Habyarimana a varare nel ’91 una nuova Costituzione, che promette il multipartitismo.
Mentre continua la guerriglia dell’Fpr, con massacri da ambo le parti, il presidente firma, il 4 agosto 1993, gli accordi di Arusha, che prevedono il rientro di tutti i profughi tutsi e una sostanziale spartizione del potere con l’Fpr. In questo momento comincia la pianificazione vera e propria del genocidio: l’Akazu, il gruppo di potere formatosi attorno al presidente e al suo clan familiare non accetta limitazioni di potere e comincia ad organizzarsi: vengono creati e armati gli interahamwe, milizie hutu irregolari; vengono acquistati dalla Cina, attraverso la ditta Chillington di Kigali, i machete; vengono redatte liste di esponenti tutsi da uccidere; viene lanciata “Radio Machete”, la Radio Televisione Libera delle Mille Colline, per coordinare e incitare gli hutu a “completare il lavoro” di sterminio degli “scarafaggi tutsi”.
Il tutto con il sostegno finanziario e militare della Francia.
Il movente ideologico fondamentale è il razzismo, importato agli inizi del ‘900 dai colonizzatori belgi, che hanno esaltato l’etnia tutsi al potere.
I tre gruppi, tutsi, hutu e twa, vivono insieme da almeno 5 secoli e hanno la stessa lingua, religione e cultura. Per la loro conformazione fisica, più vicina agli standard occidentali, i tutsi, alti, magri e dalla carnagione chiara, vengono ritenuti più intelligenti e adatti a gestire il potere; mentre gli hutu, più tozzi e scuri, vengono descritti come rozzi e adatti al lavoro dei campi; i twa, pigmei, sono visti come esseri vicini alle scimmie.
Il 6 aprile ’94 l’aereo presidenziale viene abbattuto da un missile mentre è in fase di atterraggio a Kigali. Habyarimana è di ritorno da Dar es Salaam, dove ha concordato una nuova formazione ministeriale. E’ l’inizio del genocidio.
Gli ultrà dell’Hutu Power, con a capo il colonnello Théoneste Bagosora, capo di gabinetto del ministro della difesa, cominciano diffondendo una lista di 1.500 persone da uccidere per prime.
Entrano in azione gli interahamwe, che istituiscono delle barriere stradali: al controllo dei documenti le persone che hanno sulla carta d’identità l’appartenenza all’etnia tutsi vengono massacrate a colpi di machete.
La radio coordina le operazioni, dà notizie ed esulta per le azioni più spettacolari, ma anche invita i tutsi a presentarsi alle barriere per essere uccisi. Molti adulti si sacrificano, nel tentativo di proteggere e salvare i bambini.
Per cancellare i tutsi dal Rwanda i miliziani interahamwe uccidono coi machete, le asce, le lance, le mazze chiodate, le armi da fuoco.
Per i tutsi non esistono luoghi sicuri: anche le chiese vengono violate.
Sulle colline di Bisesero decine di migliaia di persone organizzano la resistenza.
In aprile gli europei vengono evacuati da Kigali e anche l’ONU decide di ritirare il contingente di pace, mentre discute se si tratti o meno di genocidio. Il 22 giugno i francesi intervengono con un’azione militare umanitaria, l’”Operazione Turquoise”, successivamente riconosciuta dall’ONU: l’intervento viene però utilizzato dai genocidari per proteggere la propria fuga dal paese. Il 4 luglio Paul Kagame, a capo dell’esercito Fpr entra a Kigali. Il 16 luglio 1994 la guerra viene dichiarata ufficialmente finita.
Anche in questo immane massacro, di pulizia etnica assoluta e senza nessuna regola, si distinsero alcune persone, alcuni Giusti che mettendo a rischio la propria vita, le proprie sostanze si opposero e salvarono migliaia di perseguitati.
Ne ricordiamo tre: Pierantonio Costa, Jacqueline Mukansonera e Paul Rusesabagina

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