Giampaolo Pansa, Prigionieri del silenzio, Sperling & Kupfer, 2006

prigionieri del silenzioAll’inizio di questa storia c’è un giovane sardo, solitario e ribelle: Andrea Scano. Negli anni Trenta, su una piccola barca a vela, scappa dal paese natale, Santa Teresa, in Gallura. La meta è la Corsica che sembra promettergli una vita diversa, la libertà, un po’ di fortuna.
Dalla Francia, Andrea va in Spagna, arruolato nelle Brigate internazionali.
Di lì passerà al confino di Ventotene, alla guerra civile a Genova e sull’Appennino ligure e infine alla vittoria del 25 aprile 1945. È a questo punto che il suo percorso di militante comunista subisce una svolta tragica. Per aver nascosto le armi da usare nella tanto attesa rivoluzione, Scano è obbligato a riparare in Jugoslavia. Sarà qui, nel paradiso proletario del maresciallo Tito, che scoprirà come un vincitore possa trasformarsi in un vinto. Dopo lo strappo con Mosca i comunisti italiani lì rifugiati o lì espatriati per vivere nel socialismo, vengono imprigionati.
Scano è condannato alla deportazione in un gulag tra i più feroci, l’Isola Calva. Torturato da comunisti come lui. Ridotto a un cadavere vivente. E poi, rientrato in Italia, di nuovo prigioniero. Ma stavolta del silenzio imposto dal Pci ai compagni sopravvissuti all’inferno jugoslavo, poiché così vuole una cinica ragion di partito. Si apre una porta rimasta chiusa per troppo tempo su pagine oscure e ambigue della nostra storia recente.
«Il Bojcot, il boicottaggio, era forse la punizione più degradante fra le tante in vigore nell’Isola Calva… Cominciava con la vestizione del boicottato. Lo costringevano a indossare una camicia nera e delle braghe con due bande verticali rosse, affinché tutti vedessero che era un appestato, un cominformista testardo, restio a ravvedersi. Con questo rito, il boicottato cessava di essere un uomo e non aveva più alcun diritto, neppure quei pochissimi concessi ai deportati… Chiunque poteva insultarlo. O sputacchiarlo. O prenderlo a pugni e calci. Tutti i lavori pesanti erano i suoi. Lo costringevano a faticare in coppia con un altro detenuto che diventava il suo aguzzino. Costui lo incalzava senza sosta, scaricando la maggior parte della fatica su di lui. Doveva fare tutto di corsa, con i piedi spesso protetti soltanto da un pezzo di copertone, legato con filo di ferro…»

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