L’isola Calva o Goli Otok: due modi diversi per chiamare quello stesso luogo, che dal 1949 al 1956 il regime di Tito, trasformò in un inferno, in un luogo di tortura e di morte.
Goli Otok è un grande sasso in mezzo al mare, arido, deserto, riarso dal sole d’estate e battuto dalla bora gelida d’inverno. Uno spuntone di roccia, alto fino a 230 metri, posto in mezzo al Canale della Morlacca, tra l’isola di Arbe (Rab) e la costa dalmata. E’ qui che Josip Broz Tito fece deportare, dal 1949 al 1956, oltre 30.000 prigionieri politici, dei quali circa 4.000 morirono a causa dei disumani trattamenti subiti. Chi ne è uscito, è rimasto profondamente colpito nel fisico e nello spirito, spogliato di ogni volontà di ribellione o di rivendicazione.
Delle ben diciassettemila persone rinchiuse in questo luogo (tra cui anche centinaia di monfalconesi), molti morirono dopo aver subito indicibili torture o si tolsero la vita.
Meglio un mese a Dachau che un’ora a Goli, dichiarò l’italiano Mario Bontempo, che era stato in tutti e due i lager.
Particolari su questo inferno titino, riportati da Diego Zandel, fanno riferimento alla crudele contabilità dei deportati all’Isola Calva: dal 1949 al 1956 sarebbero stati oltre 30.000 i prigionieri politici internati, dei quali circa 4.000 morirono a causa dei disumani trattamenti subiti.
Chi sbarca a Goli Otok riceve un terribile benvenuto: una doppia fila di detenuti urlanti slogans titini, in mezzo alla quale il nuovo internato passava ricevendo bastonate, calci e sputi. Chi, già detenuto, bastonava, sapeva che se si fosse dimostrato poco crudele o solo indeciso, sarebbe stato a sua volta bastonato dagli altri. (39)
Nei campi di detenzione jugoslavi la parola chiave è ravvedimento. Il ravveduto è colui che senza esitazioni o ripensamenti comprende il suo errore e aderisce entusiasta alla linea politica del Partito Comunista jugoslavo. Per sancire l’irreversibilità del proprio ravvedimento deve trasformarsi a sua volta in aguzzino. È lui che più di ogni altro si impegna a procurare atroci sofferenze ai cominformisti non ancora ravveduti.
E’ semplicemente impossibile descrivere la vita a Goli, in quell’atmosfera di continue urla di dolore, di incessanti bastonate, di slogan perennemente gridati, inni idioti cantati in coro, senza quasi posa, sotto tortura. No, non è assolutamente possibile descrivere una situazione nella quale alcune migliaia di persone, disperate, si bastonano e si uccidono a vicenda. Nessun uomo può raccontare queste cose senza provare orrore e nessuno può esprimere questo orrore.
A tale terribile scenario si aggiungono anche le testimonianze dello scrittore e accademico Dragoslav Mihailovic e di un prigioniero del lager, Stipe Govic, secondo i quali il maresciallo Tito aveva predisposto dei piani di sterminio dei prigionieri nella malaugurata ipotesi che i sovietici avessero pensato di intervenire per “punire” i compagni jugoslavi. Di fronte ad un’eventuale avanzata sovietica, dunque, tutti gli impianti dell’isola maledetta sarebbero dovuti saltare in aria, facendo così sparire in una notte tutti i documenti e i prigionieri rimasti, in un quadro di cinica e brutale “soluzione finale”.
Ma non è tutto: nel caso in cui il regime titino si fosse trovato di fronte all’estremo pericolo, ogni cosa era stata studiata (o addirittura predisposta?) affinché gli ex deportati superstiti fossero sterminati in una notte sola.

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