Don Francesco Bonifacio
Beatificato il 5 ottobre 2008, S.Giusto a Trieste

don francesco bonifacioE’ la sera dell’11 settembre 1946. Don Francesco Bonifacio sta rincasando da Grisignana, dov’era stato a trovare don Luigi Rocco. Sa di correre rischi. Anziché la strada principale, prende un sentiero. Ma viene fermato da due uomini della guardia popolare. Lo insultano, gli muovono violenza. Poi l’esecuzione e l’infoibamento. Don Rocco verrà a sapere più tardi che anche lui è sotto tiro. Ma non ha paura, ha 24 anni. Denuncia la sparizione del confratello e rivolto direttamente ai sicari dice loro di vergognarsi. Ma deve scappare per non fare la stessa fine di don Francesco.
«Quel pomeriggio don Francesco venne a trovarmi – ricorda don Luigi – per confidarmi il suo stato d’animo preoccupato. Sia per lui, che per me. Ero un giovane prete, al primo incarico. Il vescovo Santin mi aveva incaricato di sostituire il parroco che se n’era dovuto andare perché minacciato di morte. Don Francesco mi passò alcuni consigli di prudenza. Andammo in chiesa a pregare e mi chiese l’assoluzione. Desiderava, fra l’altro, trovare un padre spirituale che potesse seguirlo. Lo rassicurai che la mano di Dio era su di lui e che lo avrebbe protetto».
Nato a Pirano nel 1912, secondo di sette figli, Francesco diventò prete il 27 dicembre 1936, nella cattedrale di San Giusto a Trieste. Dopo un primo incarico a Cittanova, assunse la responsabilità della curazia di Villa Gardossi, vicino a Buie. Case sparse, senza luce, l’acqua molto lontana. Siamo nell’Istria dell’immediato dopoguerra, con fucilazioni lungo le strade, sparizioni, violenze d’ogni genere. Sotto tiro, da parte delle forze di Tito, la Chiesa e gli italiani. «Don Francesco si fece subito amare, perché visitava ogni famiglia, specie se c’era un ammalato. Il poco che aveva lo distribuiva ai poveri. Quella sera lo accompagnai per un po’ lungo il sentiero. Poi mi disse: torna a casa, io vado ad ordinarmi un po’ di legna per l’inverno. Sono certo che l’avrebbe distribuita a chi non ne aveva. Purtroppo lo aspettavano “loro”. Anzi, ho saputo che aspettavano anche me». Un contadino del posto, testimone del rapimento, chiede ai sicari di lasciar andare il sacerdote. Ma non c’è verso; viene allontanato e minacciato. In un bosco vicino, don Francesco è spogliato, deriso, colpito a calci e a pugni. Lui prega. Ma perde i sensi quando una grossa pietra gli viene scagliata in volto. Ne segue una sassaiola. Il suo corpo viene gettato in una foiba. «Il mattino dopo venne a trovarmi un suo fratello e mi chiese che cos’era accaduto. Non sapevo nulla.
Ma realizzai che don Francesco poteva essere finito in una voragine. Fu una ragazza a confermarlo, poche ore dopo. La povera madre del sacerdote si recò spesso a Buie, dagli agenti della polizia segreta, per saperne di più. Ma non le venne detto nulla. Eppure i sicari erano del posto, diretti da un “capo” arrivato da fuori. Un giorno la signora fu minacciata: lei non si interessi più di queste cose». La colpa di don Francesco? E di don Luigi? «Eravamo sacerdoti ed avevamo un rapporto particolarmente intenso, di fiducia, con la popolazione. Questo ascendente “loro” non lo sopportavano; non potevano ammettere che il prete fosse più seguito del capo partigiano. Per chi non era uomo di Chiesa, invece, faceva colpa il fatto che era italiano e che magari aveva un qualche incarico pubblico». La politica? I parroci si guardavano bene dal farla. Ma la sola circostanza pastorale di passare di casa in casa a confortare la povera gente veniva considerata come un atto di cospirazione. Nei paesi non c’erano divertimenti, i giovani ogni tanto organizzavano dei balli popolari, molto frequentati. Le organizzazioni titine copiarono l’iniziativa. «Ma ne uscirono scornate, perché le ragazze non ci andavano a quei balli. La colpa di chi era? Dei preti, naturalmente. Non era vero».
Certo, né don Bonifacio né gli altri sacerdoti si lasciarono catturare dalle intimidazioni. Il parroco di Grisignana continuò a svolgere il suo ministero anche quando gli tagliarono le funi delle campane e le pareti della chiesa vennero imbrattate di scritte oltraggiose. Anzi, le riunioni dell’Azione cattolica don Francesco cominciò a farle a porte spalancate. Proprio per evitare l’accusa di complotto. I suoi pensieri spirituali li scriveva in italiano, ma usando l’alfabeto greco. Trascorsi alcuni giorni dall’esecuzione e dalla scomparsa del sacerdote, don Rocco affrontò a viso aperto i responsabili. «Lo feci, a ripensarci, da incosciente. “Siete dei partigiani al soldo di Tito, gridai loro in faccia. Siete comunisti, odiate la popolazione, non avete in nessun rispetto la religione. Dov’è don Francesco? Non ci dite neppure che cosa ne avete fatto. E adesso spetta a me”. Alcuni parrocchiani mi consigliarono di scappare se volevo salvare la pelle. Presi una bicicletta e attraverso strade di campagna mi diressi verso Trieste, per raccontare al vescovo Santin che cos’era accaduto. Il vescovo ha creduto opportuno di non farmi rientrare».
Trascorsi gli anni, don Rocco ha avvicinato in Italia uno dei responsabili dell’esecuzione. «Mi disse che quella sera lui non c’era». Un altro finì i suoi giorni sotto il peso dell’angoscia. «Quando andava per strada, si girava continuamente per controllare se alle spalle lo inseguiva qualche vendicatore». Il corpo di don Bonifacio è ancora in fondo all’inghiottitoio di Martines, 180 metri di profondità. Don Rocco ha provato più volte a recuperare i resti. Ha sempre incontrato ostacoli. «Ancor oggi», ammette.

Da Avvenire, 7 febbraio 2006.

Newsletter Powered By : XYZScripts.com