Nidia Cernecca,  Foibe. Io accuso. Una sopravvissuta istriana trascina in Tribunale l’assassino di suo padre,  Edizioni Controcorrente.

 
Nidia Cernecca, Foibe. Io accuso. Una sopravvissuta istriana trascina in Tribunale l'assassino di suo padre, Edizioni Controcorrente.L’autrice all’epoca dei fatti che videro la brutale uccisione di suo padre Giuseppe, uomo buono, torturato e poi decapitato dopo avergli estratto dalla bocca due denti doro, aveva poco più di sei anni, ma non ha dimenticato nulla di quei momenti. L’ assassino del padre si chiamava Ivan Motika, deceduto ultraottantenne in Istria, da pensionato italiano dell’Inps. La Cernecca non scrive ora per odiare, ma perché questo doloroso capitolo europeo non venga dimenticato, perché questo “gigantesco tritacarne che ha riguardato tutti gli Italiani”, come ha annotato nel testo Armando de Simone, non sia cancellato dagli interessi della storia contemporanea, dopo aver già attraversato il deserto del silenzio durato cinquant’anni e dopo che i testi di storia, sui quali studiano i nostri ragazzi, hanno travisato od omesso la verità sull’ accaduto.
La realtà è che una bambina cresciuta troppo presto e diventata donna nel dolore, ha avuto il coraggio di accusare Motika, il boia di Gimino. La compiacenza e il silenzio che hanno circondato queste storie sono senza dubbio, annota il testo, ascrivibili alla sinistra italiana: “Non si poteva, non si doveva sapere quello che l’Istria rappresentava: la carta di scambio sull’altare di Yalta”. I fatti sarebbero stati gli stessi di quello che sarebbe avvenuto in Italia all’indomani dell’instaurazione della “democrazia popolare” (leggi dittatura comunista). Che La scrittrice scrive al figlio Ennio, che casualmente, rovistando nel cassetto dei ricordi di famiglia, ha trovato carte ingiallite, scritte dalla mano incerta e dolorosa di una bambina, nel lontano 1944. Era il suo Diario, il giardino segreto, tenuto per anni lontano dalle atroci domande che hanno continuato a produrre tuffi al cuore facendola macerare per risposte che nessuno le ha dato. “Ora eri tu, mio figlio, a chiedermi il perché… Così quel giorno iniziai a raccontarti la mia storia”. E la storia di Pepi, il nonno del ragazzo che ascolta, il padre di una bimba costretto, dopo aver lavorato per il bene di tutti a Gimino, a sfilare per le vie del paese con un sacco di pietre sulle spalle, legato con una catena da buoi al collo e lapidato con gli stessi sassi che aveva portato dove cominciava il bosco della “draga”. Ma è anche la storia del genocidio di quattro “popoli” italiani dimenticati, quello istriano, fiumano, giuliano e dalmata, ad opera dei comunisti slavi e italiani. Quando, in Istria, i berretti con la stella rossa si fermarono davanti alle case degli italiani, quelle case con gli angoli in grosso bugnato di pietra bianca circondate da boschi che parlavano, allora le foibe, che nascevano dalla terra come profonde ferite, divennero il terrore degli uomini.  Vi si giungeva con i “camion della morte”, con i finestrini dipinti di bianco, affinché nessuno potesse guardare dentro e individuare i prigionieri.  Le corriere “erano piene, ma tornavano sempre vuote e ingombre dei vestiti che i massacratori toglievano alle vittime”. Anni dopo la fuga con la madre, Nidia, una sera d’ autunno, riceve una telefonata da un amico che aveva trovato su uno dei tre volumi di Giorgio Pisanò “La guerra civile in Italia”, il nome di Giuseppe Cernecca.  Partì per l’ Istria il giorno dopo. Erano trascorsi ventidue anni da quando aveva dovuto lasciare la terra del suo cuore. Trovò le ossa del padre; due mani le avevano salvate, ma incontrò anche tanto silenzio.

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