Simha Guterman, il libro ritrovato, Einaudi

 

 

Confesso che finora avevo sentito nominare Plock (o Plozk) solo perché il famoso scrittore tedesco E.T.A. Hoffmann vi era stato relegato nel 1802 in quanto colpevole di aver distribuito caricature da lui fatte dei maggiorenti politici e militari della città di Poznan, al cui tribunale era addetto. Ignoravo (anche se potevo immaginarlo) che Plock avesse una forte comunità ebraica distrutta dai nazisti durante l’ultima guerra. Ignoravo (n‚ potevo immaginare come non lo poteva immaginare nessuno) che il dramma degli ebrei di Plock fosse stato raccontato da Simha Guterman nel libro che abbiamo davanti. Guterman aveva scritto su striscioline di carta che aveva introdotto in una bottiglia, ritrovata nel 1978 sotto i gradini di una scala durante i lavori di ristrutturazione di una casa a Radom. I due operai che avevano trovato la bottiglia la portarono a Varsavia all’Istituto storico della Resistenza. Fu avvertito tra gli altri il figlio di Simha Guterman, Yakov, che era sopravvissuto e stava in un kibbutz israeliano. Yakov, che aveva seguito il padre nella fuga e gli aveva promesso di tenere a mente tutti i luoghi in cui nascondeva le sue bottiglie, non solo non si ricordava di essere passato da Radom ma non era in grado di decifrare il manoscritto, tracciato in ebraico corsivo nella lingua jiddish. Ce n’è abbastanza perché i “revisionisti” proclamino questo libro una falsificazione e perché nei dintorni di Ferragosto appaiano sui giornali cinquanta articoli pro e contro la sua autenticità.
Noi crediamo all’autenticità per la semplice ragione che riteniamo questo libro la miglior testimonianza letteraria dello sterminio degli ebrei. Si dirà: e Primo Levi? I confronti sono sempre ingiusti. Diciamo allora che questa è la mia opinione e che cercherò di sostenerla. Primo Levi è diventato scrittore attraverso le sue testimonianze, Guterman lo era certamente già da prima, aveva una prepotente vocazione (il figlio se lo ricorda sempre con la penna in mano) e ha riempito di foglietti chissà quante bottiglie come quella di Radom. Del resto questa, oltre alla storia degli ebrei di Plock, conteneva altro materiale, di cui la curatrice dell’edizione francese offre un esempio: il racconto di come un rabbino in possesso di un antico manoscritto si rifiuti di consegnarlo all’erede designato per paura che cada nelle mani di un rabbino suo avversario. Il racconto è pieno di umorismo (il miscredente Guterman era egli stesso figlio di un rabbino chassidico), ma non va al di là del bozzettismo proprio degli scrittori jiddish, da Mendele Mokher Sefarim (citato una volta da Guterman) a Isaac Bashevis Singer. Purtroppo gli ebrei orientali sono diventati soggetti di storia universale, e quindi, almeno in questo libro, oggetti di grande letteratura, solo attraverso il loro massacro.
La straordinaria genialità di Guterman sta nell’avere intuito immediatamente che quella che si svolgeva sotto i suoi occhi era una tragedia che sarebbe durata molto tempo, quindi esigeva la forma del romanzo, e che la cronaca in questo caso era già un romanzo con i suoi capitoli e il suo finale facilmente prevedibile, almeno come destino collettivo. Bastava stilizzare leggermente i fatti reali e insistere su qualche personaggio: Yankl, il fratello malato, il generoso pescatore Strach, nemico dell’ingiustizia e inguaribile chiacchierone, il gazzettino del paese; il rabbino Mayer Kahn, che non permette che si dubiti dell’onnipotenza divina; il matto Altman, che vede il futuro così come sarà, cioè un futuro di morte. Altman in questa forma pare che non sia mai esistito, ma sarà esistito un personaggio simile in qualche villaggio vicino, per non parlare della ricca tradizione di profeti folli, dai classici greci a Shakespeare a tutti i ‘meshugge’ della letteratura jiddish. Ci vuole un concetto ben gretto di realtà per occuparsi di quella di Altman.
Su questi volti e su altri che diventano altrettanto familiari mano a mano, procede la vicenda fase per fase. Un primo capitolo ci presenta la vita della comunità alla vigilia della guerra: il conflitto è tra i ricchi e i poveri, e Strach è naturalmente per i secondi, ma si fa delle illusioni sulle possibilità di resistenza della Polonia, mentre un contadino che ha visto vuotare i negozi di scarpe ritiene che “siamo già kaputt”. Ma siamo a Sendin, un villaggio nella foresta a pochi chilometri da Plock, dove la famiglia di Guterman passa le vacanze estive e lui la raggiunge il venerdì sera. “L’abete… odorava di resina fresca. Intorno la foresta emanava i suoi molti profumi. E davanti a me, a perdita d’occhio, si dispiegava un paesaggio ridente di verdi praterie e di gemme dorate, immersi nel sole”. Anche dopo l’inizio della vicenda, di morte non mancheranno accenni come questo alla bellezza del paesaggio, come se Guterman fosse nato per descrivere una realtà idillica distrutta dalla guerra e dalla persecuzione. E forse era così. Ma quel che è certo è che la sua vicinanza al sionismo e al socialismo gli conferisce tutta la forza che deriva dall’utopia mondana. Guterman non si arrende n‚ si arrenderà mai, cadrà con le armi in mano nell’insurrezione di Varsavia contro i tedeschi nell’agosto 1944. Per questo non c’è lettura più corroborante di questa storia di martiri. Mi dicono di un tale che soffriva di depressione e che è guarito leggendola. Non a torto la copertina parla di “testimonianza eccezionale sulla resistenza degli ebrei al nazismo”.
Poiché di resistenza certamente si tratta, anche se silenziosa e passiva. La si potrebbe chiamare “resistenza isometrica” col nome di un certo tipo di ginnastica in cui si tratta di muovere gli arti nel senso prescritto, ma non dandola mai vinta. Chissà quanti Guterman ignorati smentiscono le accuse di Hannau Arendt e di tanti altri alla passività nei candidati alla morte. E la lentezza degli accadimenti fa si che resti sempre spazio per il miracolo che i rabbini aspettano e che non arriva mai. Il romanzo, scritto, come è stato detto, “in diretta” (ma il termine, a parte l’empio ma significativo confronto con le riprese televisive, non è nemmeno esatto, se dobbiamo credere alla data apposta alla fine: gennaio-maggio 1942), non mette in scena quella che dopo Primo Levi si chiama “zona grigia”. Non c’è nessun tentativo di solidarizzare con il “Judenrat”, formato dagli ebrei più ricchi e malvagi, come sottolinea al solito l’implacabile Strach, seguito da tutti gli altri. Né la paura dei tedeschi serve a renderli meno vili, schifosi e stolidi. Si veda la storia della SS che vorrebbe far fuori un ebreo perché si chiama Sperling come lui, ma poi si rabbonisce quando gli spiegano che si scrive con Sz (che non è altro che una variante grafica del tedesco S). O la meraviglia degli ebrei quando arriva un comandante delle SS che non accetta regali. Il miracolo, disastroso per gli ebrei, non è certo il tedesco che si lascia, ma quello che non si lascia corrompere.
Tra tanta letteratura sullo sterminio degli ebrei questo libro è forse il più adatto a essere letto nel presente momento storico: quando l’avvenire è così oscuro da giustificare qualsiasi depressione e anche il richiamo alla Shoah serve più che altro a far dimenticare i crimini del presente con quelli del passato, Simha Guterman sta a testimoniare che il coraggio, la forza di volontà, l’ironia liberatrice possono e devono fiorire anche nel realismo della disperazione.

recensione di Cases, C., L’Indice 1994, n. 4

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