Istria, Fiume Dalmazia, terre d’amore, Adriana Ivanov Danieli, A.N.V.G.D. di Padova
Adriana Ivanov Danieli, esule da Zara all’età di un anno, già insegnante di Materie Letterarie al Liceo-Ginnasio Tito Livio nella Città del Santo, ha scritto e ora pubblica quest’opera, a cura dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia Dalmazia, Sezione di Padova.
Si tratta di un bel libro, prezioso, anche sorprendente e quanto mai opportuno, che muove da corretta ricostruzione storiografica fin dall’antichità remota di queste terre, prima e dopo l’impero romano, e poi lungo il periodo della Serenissima, quello austriaco, quello fascista tra le due guerre. E soprattutto illustra la tragedia che ci fece perdere l’Istria, Fiume e la Dalmazia: la loro occupazione, prima nazista, poi titina, i massacri delle foibe e la disperazione dell’esodo, la politica degli alleati, l’ingiustizia del Trattato di Pace e la resa di Osimo.
E’ bello, il libro, non solo per la sua piacevole veste editoriale e per il corredo di eloquenti illustrazioni, specie fotografiche; ma per come “narra”, con il pregio della sintesi e della chiarezza nelle spiegazioni, i luoghi, le persone e gli avvenimenti. E’ prezioso, perché non è un “altro” scritto in argomento; ma uno “scritto nuovo”, per l’efficacia con cui sa coniugare il riscontro esaustivo degli eventi con la semplicità della loro esposizione: che ben testimoniano la professionale abitudine, dell’Autrice, a studiare la Storia e a insegnarla. E’ sorprendente, per come “espone” – ben sopra l’eco del ricordo – con la forza e la sicurezza della voce viva e si fa sovrastante, nell’illustrare quei temi, sui sette decenni di spudorato negazionismo, di criminale giustificazionismo, di turpe copertura e di vigliacco silenzio. E’ opportuno, perché aiuterà alla ricostruzione di una coscienza italiana e non solo istriana, fiumana e dalmata sulla necessità della missione, che ci incombe, di non abbandonare a se stesse le Pietre del nostro passato e la musica della nostra lingua che sono rimasti lì, oltre la traccia dei confini, oltre gli stessi disegni dei Trattati.
Ci si deve perciò augurare che le 121 pagine del libro siano anzitutto adeguatamente diffuse nelle nostre scuole superiori, affinché i giovani possano studiare l’autentico degli accadimenti, e confrontarlo con i tentativi di opposto orientamento; e poi divulgate tra quella massa sconfinata di meno giovani, di non più giovani e anche di anziani che «non sa» perché le è stato impedito di sapere.
Tra queste pagine qui voglio particolarmente ricordare quelle dedicate a Norma Cossetto (pagg. 54-55) cominciando dalla fotografia che ne ritrae la purezza dello sguardo e la dolcezza del sorriso: l’immagine della sua giovinezza e della sua Speranza. Che furono subito spente perché incontrò le bestie. Volevano che lei aderisse al loro «Movimento di Liberazione»: e non v’è chi non possa cogliere l’eroismo estremo della ragazzina che, in quel cerchio di bestie, seppe rifiutare, come i martiri che non vollero incensare Cesare. E le bestie la violentarono, allora, in diciassette, infinite volte e la torturarono e si fecero suo tribunale e la “condannarono” alla morte in foiba. Nel libro si ricorda come fossero partigiani comunisti italiani e slavi: ma bisogna evidenziare come persero ogni diritto di cittadinanza e provenienza da stirpe, perché erano solo bestie che veicolavano l’eterno ritorno del male sull’hostia santa. Perché si presentarono, a Norma, con l’immagine e la somiglianza del demonio. Mentre Norma testimoniava l’immagine e la somiglianza di Dio: e fu chiamata, per uno di quei misteri che periodicamente ci ripropongono la necessità – per essere compresi – del “credo quia absurdum”, a identificarsi nella Crocifissione dell’Innocenza, a ripercorrere il Calvario di Cristo.
Il libro ben delinea anche il profilo di altri italiani che furono trucidati come Norma, tra i quali il beato Francesco Bonifacio, le cui sevizie vennero identificate da Benedetto XVI nell’odium fidei del martirio cristiano. Ma è a Norma che particolarmente mi riconduce la Ivanov, quasi per ricordarmi un debito. Con la ragazza, che preparava il «Rosso d’Istria» della tesi di laurea sento vicinanza fraterna per l’essermi stata virtuale compagna di studi nell’Università si Padova; e anche paterna, per i lunghi decenni di docenza nell’ateneo che me la rendono ideale destinataria della mia attenzione. E perciò intendo cercare di migliorare la traccia di ricordo che le è stata concessa al Bò. Si tratta di una piccola targa. Che non è adeguata: perché qui bisogna andare oltre quel foglietto di metallo che si farà subito illeggibile: perché per allontanare l’oblio del tempo serve la pietra, come gli stemmi che qui lasciarono, in lontani secoli, gli antichi nostri predecessori a ricordare il tempo dei loro studi tra noi. E non è, la piccola targa, sufficiente: per quanto non tramanda quel come, quel quando e quel perché che motivarono sia il conferimento della sua laurea in onore, per iniziativa di Concetto Marchesi; sia quella della sua medaglia d’oro al merito civile ad opera del presidente Ciampi. Senza i quali la celebrazione finisce nell’asettico del “dire e non dire”, che poi è la prudente proiezione dell’”impegno disimpegnato”: del “dire e disdire” ad un tempo.
Non so se riuscirò nell’intento, ma ci proverò.
(Sandro Gherro, Opinione Nuove)