Fino al 1938 gli ebrei italiani erano cittadini come tutti gli altri, erano presenti in tutti gli strati sociali e partecipavano alla vita della nazione.
Nel 1936 iniziò in Italia una martellante campagna di stampa contro gli ebrei da parte di due giornali: il quotidiano “Il Tevere” e il periodico “La difesa della razza”.
Questi due giornali, seguiti poi da tutta la stampa fascista, sostituirono il termine ebreo con quello di giudeo usato in senso dispregiativo, con evidente riferimento all’apostolo Giuda Iscariota che nei Vangeli è indicato con l’appellativo di traditore.
Nel luglio del 1938 compare il primo atto ufficiale antiebraico, sia pure solo teorico. Era “Il manifesto degli scienziati fascisti” detto anche “manifesto della razza” che fu sottoscritto da 180 pseudo scienziati fedeli al regime.
Il documento articolato in 10 punti affermava sostanzialmente che gli ebrei non appartengono alla razza italiana.
Il 5 settembre 1938 esce la prima legge razziale poi quasi quotidianamente si susseguono nuove leggi, disposizioni, circolari amministrative che portavano sempre nuovi divieti.
I bambini e gli adolescenti non avevano la possibilità di frequentare la scuola pubblica, i capofamiglia di prestare la loro opera negli uffici della pubblica amministrazione, nella scuola e nelle università, erano impediti nelle loro attività, che fossero imprenditori o venditori ambulanti.
Vennero radiati dall’esercito, dagli albi professionali, dalle banche, dalle imprese di interesse pubblico. I matrimoni con cattolici erano proibiti.
La vita quotidiana venne resa difficile e umiliante con la proibizione di pubblicare gli annunci funebri sui giornali, conservare il proprio nome nell’elenco telefonico, frequentare luoghi di villeggiatura, lavorare nel mondo dello spettacolo, operare in qualità di ostetrica o infermiera.
E, ancora, via dai libri scolastici testi scritti da ebrei, via dalle strade nomi di ebrei illustri, via dalle lapidi di ospedali o asili i nomi di benefattori ebrei.
E la situazione andò sempre peggiorando con l’avvicinarsi dell’entrata in guerra dell’Italia.
Il quadro fino alla caduta di Mussolini, il 25 luglio 1943, era di una pesante persecuzione amministrativa, politica e civile da parte dello stato.
Nel settembre del 1943 gli Ebrei nell’Italia centro-settentrionale erano circa 33.000 tra cittadini italiani e profughi stranieri.
Con l’8 settembre del 1943, l’occupazione tedesca e la creazione della Repubblica Sociale Italiana (RSI), la persecuzione antiebraica subì una decisa svolta verso l’assassinio. Le prime violenze antiebraiche furono messe in atto sul Lago Maggiore e a Merano a metà settembre, ma l’inizio della soluzione finale iniziò il 16 ottobre a Roma con la razzia al Ghetto.
Nel mese di novembre le maggiori città del Nord subirono una “judenaktion” con due trasporti destinazione Auschwitz: uno partito il 9 novembre da Firenze con ebrei rastrellati nelle carceri di Firenze e Bologna, l’altro partito il 6 dicembre il cui carico avvenne a Milano, Verona e Trieste.
Il 14 novembre del 1943 i delegati della Rsi approvarono la Carta di Verona che al punto 7 recitava “gli appartenenti alla razza ebraica sono stranieri, durante questa guerra appartengono a nazionalità nemica”.
Con questa dichiarazione la RSI legittimava sul piano formale la persecuzione antiebraica già avviata dai tedeschi, mentre sul piano sostanziale impegnava la sua polizia a fornire i contingenti per la deportazione.
Vennero emanate varie circolari esplicative e atti amministrativi in tal senso.
Nell’attesa che venisse allestito un grande campo di concentramento, come prescritto dalla legge, ne furono istituiti di provvisori in edifici di fortuna come scuole, collegi, castelli abbandonati. Se ne costituì una fitta rete, di breve durata, ma ugualmente in grado di rifornire i tedeschi del contingente sufficiente a formare un nuovo grande convoglio verso Auschwitz-Birkenau, partito da Milano il 30 gennaio del 1944.
I prigionieri erano affluiti nel carcere di San Vittore a Milano, dai campi provinciali di Calvari di Chiavari, di Bagno a Ripoli, di Bagni di Lucca, di Tonezza del Cimone, di Forlì ed altri.
Il grande e definitivo campo di concentramento fu istituito a Fossoli, a 5 km da Carpi e la sua direzione venne presa dai tedeschi.
Anche l’Italia si uniformava appieno alla procedura messa in atto negli altri paesi europei: arresto, concentramento in apposito campo, organizzazione di una partenza verso Auschwitz una volta raggiunto un numero sufficiente di prigionieri da spedire. Da Fossoli furono 5 le partenze per Auschwitz-Birkenau, due per Bergen Belsen.
Alla fine del luglio 1944 il fronte delle operazioni militari si era notevolmente avvicinato alla zona di Modena e i ponti sul fiume Po erano stati bombardati dagli alleati. La Gestapo decise allora di evacuare il campo di transito di Fossoli verso una zona più sicura e posta geograficamente più a nord. Un nuovo campo venne istituito nei pressi di Bolzano, in zona Gries, dove fu trasferito il personale tedesco di Fossoli e i prigionieri politici, circa un centinaio. L’ultimo convoglio dall’Italia e arrivato ad Auschwitz fu quello partito da Bolzano il 24 ottobre 1944. Con esso si chiude la storia della deportazione degli ebrei dall’Italia verso lo sterminio, ma non si conclude la triste storia delle deportazioni poiché altre ve ne furono e fino al tardo febbraio del 1945, dirette verso il campo di concentramento di Ravensbrueck e Flossenburg geograficamente più lontano dalle linee di avanzata sovietica, rispetto ad Auschwitz.
Il bilancio finale fu di 6.806 ebrei italiani arrestati e deportati (di cui 5.969 deceduti) e di 322 morti in patria per eccidi, maltrattamenti o suicidi.

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