Rose bianche a Fiume, Mondadori, Stefano Zecchi
Liceale alla fine della Seconda guerra mondiale, Gabriele fa parte di quegli italiani di Fiume che si illudono. È un giovane comunista ingenuo, un internazionalista fiducioso nella pace fra i popoli: in un prossimo domani, le frontiere non esisteranno più…
Nel fascismo sconfitto Gabriele vede la fine di una dittatura e, inconsapevolmente o meno, pensa che anche l’Italia debba espiare, pagare un prezzo, emendarsi di una colpa. Sotto questo profilo è in buona compagnia, perché l’Italia ufficiale, quella antifascista appena uscita dal conflitto, la pensa in fondo allo stesso modo, con qualche contorsione ideologico-mentale in più, frutto del cinismo retorico di chi vuole amputarsi del passato fingendo non sia il suo. Sotto questo aspetto, l’intera cosa orientale dell’Adriatico è un pezzo di carne viva di cui si deve liberare. Rimanda a un’idea imperiale e di dominio che ora giudica anacronistica, oltre che fallimentare, va a confliggere con il vento della storia che ora su quelle coste fa sventolare il vessillo progressista dell’antifascismo: democratico, dunque, anche se a garrire è il comunismo sovietico.
Quello che Gabriele non riesce a capire fa il paio con quello che il governo italiano non riesce a digerire. Ovvero, perch é dall’Istria, dalla Dalmazia, dal «Sì come a Pola presso del Quarnaro,/ che l’Italia chiude e i suo termini bagna» cantato da Dante, gli italiani vogliano fuggire, un esodo terribile e amaro. Come fanno a preferire un Paese sconfitto e in macerie all’eguaglianza e la dignità sociale che il nuovo corso iugoslavo promette?
Per quanto giovane e ingenuo, per quanto idealista e comunista, Gabriele si rende conto che la retorica ufficiale, per la quale quell’esodo non riguarda altro che i fascisti più irriducibili e più colpevoli, non regge. L’italianità di Fiume la conosce bene, casalinghe e operai, dipendenti statali e professionisti: persone normali, persone semplici, nella stragrande maggioranza. Sono loro ad aver paura, a non fidarsi, sono loro a preferire l’incerto più assoluto, niente più casa, lavoro, radici… Nell’incapacità e/o non volontà a trattenerli, c’è qualcosa che gli sfugge, che non riesce ad afferrare. Eppure la guerra è finita, e con essa l’orrore e anche, ma sì, le rese dei conti, e il futuro si annuncia radioso.
La sua difficoltà a capire fa il paio, dicevamo, con il fastidio che la madrepatria sembra provare. Perché non rimangono dove stanno, perché si intestardiscono in un sentimento patriottico che al Paese ha provocato solo catastrofi? Non si rendono conto che aiutarli, accoglierli vuol dire dover ammettere che lì non c’erano invasori, conquistatori, sopraffattori, fascisti, insomma, ma invece, più semplicemente, degli altri italiani? Non si rendono conto che l’accettarli potrebbe portare a memorie contese, rancori, rivendicazioni di confini? Di tutto l’Italia ha bisogno tranne che di tensioni internazionali, rapporti di cattivo vicinato, fantasmi dal passato. È anche per questo che ha siglato trattati di pace onerosi, ha accettato smembramenti di territorio, ha dichiarato di non aver più nulla a pretendere. Per cui, se proprio non se ne può fare a meno, che almeno quegli italiani, come dire, di serie B, tacciano, non rialzino la testa, si facciano dimenticare. Solo così li si potrà riassorbire.
Rose bianche a Fiume, il nuovo libro di Stefano Zecchi, racconta questo dilemma e questo esodo, le ipocrisie e le incomprensioni di cui fu carico, le tragedie individuali che lo caratterizzarono, la tragedia nazionale che in esse si configurò. Lo fa scegliendo la forma del romanzo e non del saggio, ed è una scelta giusta perché nel raccontare una storia in fieri, i mille condizionamenti della quotidianità, si libera della conoscenza a posteriori di ciò che si sa essere avvenuto, conserva la plausibilità e la freschezza di scelte altrimenti, con il senno di poi, incomprensibili. Gabriele, il protagonista, per esempio, è credibile proprio perché abbraccia con naturalezza quella che gli sembra la parte vincente, e quindi giusta, e viceversa, un hegeliano ciò che è reale è razionale che romanticamente vede nel bene la progressione logica dell’agire umano. Nel suo rifiuto di andarsene, nell’ostinarsi a credere possibile «un’altra» Fiume, concorrono seduzioni ideologiche e seduzioni sentimentali, la difficoltà a staccarsi da quelle amicizie «per la pelle» tipiche dell’adolescenza e l’idea, anch’essa adolescenziale, di avere il proprio destino fra le mani. A tradirlo, in fondo, sarà proprio questo, l’illusione che ciò che è nobile vince sul contingente, i compromessi, le vigliaccherie.
Romanzo sulla memoria, Rose bianche a Fiume non è però un romanzo sulla nostalgia che a essa si accompagna. Perché la memoria può, sa e deve essere selettiva, è un’arte della sopravvivenza e in fondo una possibilità di rinascita, laddove la nostalgia, lasciata a se stessa, finisce con il barare e impedisce le scelte. Tornare è a volte morire.
Raccontato con poetica lucidità, Rose bianche a Fiume è anche l’estetica di un territorio: isole, coste, insenature viste nel sole tiepido di una chiara giornata di primavera dove tutto brilla in una luce immobile che non ce la fa a disegnare i contorni e li sfrangia in un alternarsi di cielo, acqua e terra, in un paesaggio che ora sembra volare via e ora inabissarsi. Nel tempo, simbolicamente Fiume fu anche questo, la vacanza dalla storia e dalla politica prima che la storia e la politica tornassero per farle pagare il conto.
Stenio Solininas (il giornale del 14 ottobre)